giovedì, 25 novembre 2010
Da gentile probabilmente ho poco titolo per infastidirmi. Se pero' fossi un ebreo della Diaspora troverei urticante e irrispettosa, al limite dell'insulto alla mia identita' religiosa e culturale, la frase conclusiva dell'articolo di Yehoshua pubblicato oggi da "La Stampa":
… il dibattito morale tra quegli ebrei che hanno deciso, nel bene e nel male, di assumersi la responsabilità di tutti gli aspetti della loro vita in un territorio definito e in un regime autonomo e quelli che vivono in mezzo ad altri popoli e mantengono un’identità ebraica parziale mediante lo studio, cerimonie religiose, e limitate attività comunitarie. [il corsivo e' mio, NdRatto]
L'idea che l'ebraismo della Diaspora sia in qualche modo un ebraismo limitato, minore, non vissuto pienamente — a fronte di quello che si dispiega in tutta la sua pienezza in Eretz Israel — e' certo uno dei pregiudizi piu' radicati del sionismo. Ma e' un'idea sbagliata ed aberrante, che tende a negare la dignita' della Diaspora — e il suo immenso contributo alla civilta' e alla cultura non soltanto ebraica, prima e dopo la fondazione di Israele. E finisce per tramutarsi in disprezzo per una parte determinante dell'identita' ebraica in generale (verrebbe voglia di ricordare che — in fondo — Maimonide era un ebreo della Diaspora).
E' ben vero. (Mi) vien fatto però di pensare che, forse, possono effettivamente urticarsi/infastidirsi dinanzi a esternazioni siffatte solo i gentili che indossino le… tzitziòt altrui, appunto (mi ci metto anch'io, dunque). E pure Maimonide, in fondo, era ebreo della diaspora suo malgrado: non credo che ai suoi tempi si nutrisse alcun genere di 'refugee pride'.