sabato, 1 maggio 2004
L'ho detto un bel po' di tempo fa e continuo a pensarlo, nonostante tutto: posto che in Iraq non ci si doveva andare — e men che meno con il servilismo e la totale assenza di obiettivi chiari con cui ci si e' andati — non e' che possiamo venircene via come se niente fosse. Sciaguratamente la storia e la politica sono un po' come la termodinamica: i processi sono irreversibili — e non basta disfare quel che si e' fatto per tornare alle condizioni di partenza. L'intervento occidentale ha distrutto ogni struttura statale, economica e di organizzazione della convivenza in Iraq (non che quelle che c'erano prima fossero da apprezzare — ma c'erano — e senza un minimo di strutture un paese non vive) — e prima di andar via bisogna ricostituire delle condizioni minime di autosufficienza. Il vero punto della questione e' che sulla strada che si e' imboccata non si va verso la ricostruzione dell'Iraq, ma soltanto verso una guerra infinita, destinata a logorare tutte le parti in campo, a diminuire la sicurezza e la stabilita' nel mondo, a violare i diritti degli iracheni, a minare alla base i valori della democrazia occidentale. Occupare un paese straniero e imporgli manu militari un dominio a cui e' ostile e' un lavoro sporco, sanguinoso, costoso e inutile — e finisce per devastare gli occupati e rendere disumani e tirannici gli occupanti. L'esempio tragico della deriva di Israele dovrebbe essere di monito a tutti.
La situazione irachena e' ormai sfugita di mano all'occupante americano: lo dimostra la vitalita' dell'insurrezione, che soltanto una stampa servile puo' cercare di descrivere come priva di sostegno nella popolazione. Le forze di occupazione non controllano piu' il territorio (a Najaf sono fuori dalla citta', a Kut ne sono state cacciate, a Falluja dopo un mese di combattimenti hanno ceduto "spontaneamente" il controllo a un generale baathista sunnita, cioe' a un rappresentante del vecchio regime, ecc.) — e reagiscono alla disperata — alzando il livello dello scontro (i bombardamenti di questi giorni sono stati — a quanto pare — tutt'altro che "chirurgici") e ricorrendo alla piu' antica e sperimentata tecnica di intimidazione del nemico: la tortura. Se sono ridotti a questi sistemi, vuol dire che i vertici politico-militari americani in Iraq sono alla frutta (o, per dirla in maniera elegante, hanno esaurito le opzioni disponibili).
In queste condizioni tuttavia, la scelta da fare non e' — se possibile — tornarcene a casa. Sarebbe catastrofico per l'Iraq e non solo per l'Iraq. E' necessario che l'occupazione militare si trasformi in qualcos'altro, in un mandato internazionale per la ricostruzione del paese sotto la guida dell'ONU e di un governo iracheno rappresentativo. Cio' implica che gli Stati Uniti riconoscano il fallimento della loro strategia, cedano realmente il comando delle operazioni e diminuiscano la loro visibilita' e invadenza nel paese. Se l'Italia (insieme al resto d'Europa) fosse un alleato fedele e riconoscente degli Stati Uniti — e non un servo –, dovrebbe chiedere questo — e con grande fermezza. Perche' e' la sola cosa che ci possa portar fuori dal pantano, se non e' comunque troppo tardi. Male fanno percio' quei politici (anche del Triciclo) che accarezzano sempre piu' apertamente l'idea, elettoralmente fruttuosa, del "tutti a casa" senza nemmeno aspettare la nuova risoluzione ONU: guardare dall'altra parte e dire "io non c'entro" non migliorera' in nulla la situazione irachena, ne' quella internazionale. Le mani nella merda le abbiamo messe — continueranno a puzzare anche se le togliamo — e forse sarebbe meglio a questo punto dare una mano a togliere la merda, anziche' le mani.
Soltanto se la strada di una piena responsabilizzazione dell'ONU dovesse rivelarsi impraticabile — e soltanto dopo averla perseguita con la piu' grande tenacia e inflessibilita' — andar via dall'Iraq sara' inevitabile, lasciando gli occupanti americani (e con loro gli Iracheni) al loro destino. Ma non ci sarebbe di che rallegrarsi e cantar vittoria.
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